di Enrico Ceppi (fasc. 3, anno 2005)
[Già pubblicato in Luce con luce. Rivista trimestrale dell’Istituto Statale “A. Romagnoli” di specializzazione per gli educatori dei minorati della vista, 4 (1962), n. 4, pp. 38-47.]
1 – I presupposti teorici dell’orientamento
Trattando dello sviluppo dell’attività motoria, non è possibile passare senza un particolare esame un punto tanto importante nell’educazione dei non vedenti. Romagnoli, sin dal 1912 iniziando il suo lavoro sperimentale presso l’Ospizio Regina Margherita per ciechi, dove erano ricoverate bambine ancora educabili, avvertì chiaramente l’esigenza di basare l’educazione dei ciechi sul moto e sull’orientamento che del moto è l’anima e la causa. Questo grande educatore, al quale tanto deve la pedagogia dei ciechi, intuì che soltanto dando a chi non vede la possibilità di muoversi in uno spazio noto, non solo ma di ricostruirsi mentalmente lo stesso spazio, si poteva giungere ad una vera e reale emancipazione. Quando si parla di emancipazione dei ciechi, ci si potrebbe chiedere: da che cosa vogliamo emanciparli? Alcuni rispondono: dalla minorazione. La risposta è troppo vaga per poter dire qualcosa, bisogna scendere a particolari, bisogna dimenticare che cosa significhi emancipare dalla minorazione. Se intendiamo la minorazione come un fatto fisico, sensoriale, allora diviene perfettamente inutile parlare di emancipazione, poiché l’unica emancipazione possibile sarebbe quella di ridare la vista a chi non vede; non essendo possibile ciò bisogna andare oltre nella ricerca. Emancipare dagli effetti psicologici della minorazione — anche questo è un problema da considerarsi sotto diversi aspetti. Se si ammette che una alterazione sensoriale o fisica contribuisce alla reazione del soggetto all’ambiente determinando a volte questa reazione in un senso piuttosto che in un altro, se si ammette che parte del nostro carattere ci viene dato dall’ambiente, allora si deve anche concludere che nel cieco ci saranno delle conformazioni psichiche particolari, le quali non potranno essere a nessun patto eliminate.
Inoltre si pensi alla grande importanza che il senso visivo ha nella vita psichica dell’individuo, non solo come fonte d’infinite emotività, ma come mezzo di esplicazione rapida e sicura della propria personalità e si dovrà concludere che su questo campo il non vedente resterà sempre un minorato e la sua minorazione avrà, relativamente a questo settore di sensazioni, degli effetti psicologici. L’emancipazione di cui parla il Romagnoli, la sola possibile all’educazione, è quella relativa agli effetti morali della minorazione. Non si creda che affermando ciò, si voglia limitare in una qualsiasi maniera l’opera educativa, perché asserendo che è possibile una emancipazione morale, si pone forse i! compito più arduo all’educatore.
Che significa, in ultima analisi, emancipazione morale? Significa dare al cieco la coscienza della propria minorazione, dargli una visione della vita superiore in base alla quale egli possa configurare la propria esistenza in un ordine che supera la contingenza del momento, per abbracciare un significato intero dell’esistenza. Significa inoltre porlo su di un piano di parità morale con gli altri uomini, così che possa sviluppare la propria azione senza essere oppresso da un oscuro sentimento di inferiorità. Gli effetti funesti di tutte le minorazioni non consistono tanto nella limitazione che essi portano soggettivamente all’azione dell’individuo minorato, ma nella coscienza che creano nel minorato, coscienza delle diversità, consapevolezza di essere inferiore, di non poter valere quanto gli altri. Se noi abitueremo i bambini ciechi a considerare la vita sotto un aspetto puramente materialistico ed utilitaristico, essi si accorgeranno di non essere mai in grado di sviluppare un’azione che possa dirsi valida secondo i comuni criteri di giudizio. Ma se noi li educheremo a considerare il valore spirituale delle azioni essi si accorgeranno con piacere che anche la loro azione può assurgere ad un primo valore e avranno la coscienza che da loro soltanto dipende l’essere più o meno valutabile e valida la loro azione.
La pedagogia dei ciechi fondata dal Romagnoli afferma che a questo sentimento di valore spirituale, a questa coscienza morale, si giunge attraverso un’educazione motoria. Qui credo che sia il fulcro del pensiero didattico idei Romagnoli e qui credo che si possa ritrovare la vera novità del sistema. Non è vero che vi sia eterogeneità di termini, riguardando la coscienza del valore una sfera morale, e lo sviluppo motorio una formazione psicofisiologica. L’uomo non è mai scindibile in settori distinti, il corpo non può essere distinto completamente dallo spirito. La vita costituisce il legarne tra le due sfere di attività e scinderle significherebbe spezzare questo legame, rompere la vita; precipitare e lo spirito e il corpo nella morte.
Così inquadrato, il problema dell’orientamento, connesso con l’altro dello sviluppo motorio, assume un aspetto che va oltre al marginale problema pedagogico dell’addestramento dei sensi. Educare lo spirito è un imperativo dal quale non si può prescindere, ma se allo spirito non diamo delle condizioni per potersi affermare esso sarà oppresso da difficoltà insormontabili. So che ci sono stati degli spiriti che hanno raggiunto una elevatezza di pensiero non comune, uno sviluppo morale elevato, una formazione religiosa profonda e seria: mi sono davanti gli esempi di Elena Keller, di Maria Eurtin, ma ciò non vuol dire che l’armonia tra spirito e corpo non si debba raggiungere, che lo sviluppo motorio abbia da essere trascurato o posto in secondo piano. Quegli spiriti, prigionieri di un corpo chiuso di cui ho fatto menzione sopra, hanno potuto raggiungere un grado di affermazione sociale soltanto quando l’educazione ha aperto loro le porte della vita e le porte si sono spalancate quando l’attività motoria è penetrata a fiotti nelle loro membra. Si pensi alla Keller, a Malossi che viveva felice soltanto quando poteva stare nella sua piccola officina costruita nell’istituto Paolo Colosimo di Napoli.
Si è svolta presso la scuola di metodo l’educazione di un sordo-cieco. L’osservazione delle fasi di educazione del particolare alunno mi ha confermato in modo inconfutabile che lo sviluppo spirituale trae un elemento prezioso per la propria vita dallo sviluppo motorio. Infine, se non fosse così, la vita non avrebbe ragione di essere. Che significato avrebbe anche su di un piano religioso la nostra esistenza, se si toglie ogni valore all’esperienza che fluisce in noi attraverso il corpo? La negazione dei valori della vita ci riporterebbe di colpo alle idee platoniche, al platonismo delle anime prigioniere nell’oscuro carcere del corpo. Il cristianesimo ha superato questa posizione affermando la glorificazione e la risurrezione della carne insieme allo spirito. Il problema dell’orientamento esigeva una introduzione che chiarisse la sua importanza e togliesse a chi sostiene questi principi pedagogici la taccia di sensisti del peggiore stampo.
L’orientamento presso i bambini ciechi non è soltanto quella particolare facoltà di dirigere i propri atti, di stabilire la relazione tra sé e lo ambiente; l’orientamento è, nel nostro caso, la costruzione continua dello ambiente e la relazione non di sé all’ambiente, ma dell’ambiente a sé.
Che significa riferire l’ambiente a sé? Anzitutto significa stabilire una sintesi puramente mentale che non gode del beneficio dei sensi. Chi vede, vede sé stesso nell’ambiente, confronta il proprio gesto con quello degli altri, misura gli atti suoi sulla realtà che gli sta d’innanzi agli occhi. Chi non vede invece deve introdurre prima l’immagine dell’ambiente, poi riferirla al proprio comportamento. Questo è il principio fondamentale dell’orientamento, senza questo principio non potrà mai un cieco sperare di orientarsi nello spazio e nella vita. Si crede comunemente che quando un cieco riesce a muoversi con disinvoltura in un ambiente egli sia perciò fornito d’orientamento. Muoversi in un ambiente comporta rapidità di reazioni motorie che sono indubbiamente di grande utilità a chi non vede, ma che non possono da sole supplire alla mancanza della vista.
A muoversi nello spazio si può giungere anche senza l’educazione. Anzi l’educatore deve appunto fare in modo che questo sviluppo motorio, questa prontezza di riflessi condizionati si stabilisca parallelamente ad un costituirsi immaginativo dell’ambiente.
Anzitutto seguendo questa prassi educativa, si potrà giungere a risultati assai superiori anche su di un piano pratico, inoltre si scongiurerà il pericolo di proiettare l’attenzione dell’educando tutto verso l’esterno. Il bambino cieco non si deve accontentare di scansare un ostacolo, ma deve sapere che cosa è l’ostacolo che scansa. Questo non è sempre possibile, mi si può rispondere, poiché camminando per la via, egli non può soffermarsi ad esplorare ogni ostacolo che oscuramente avverte. Gli basta avvertirlo per scansarlo, questo è il suo intento. Io preferirei che si giungesse alla esagerazione opposta, dovendo esagerare, e cioè che il cieco si fermasse a rendersi conto di tutto. Questo lavoro di riconoscimento lo porterebbe in un tempo non molto lungo ad intuire insieme alla presenza anche la natura di un ostacolo. Così la sua marcia attraverso la città, potrà essere più varia e anche una passeggiata avrà per lui il valore di uno svago e di una distrazione salutare. Come portare i bambini a questo complesso orientamento? In altri articoli pubblicati su questa stessa rivista parlando delle fasi di normalizzazione abbiamo già seguito il processo di arricchimento della immaginazione e di sviluppo della sensorialità; l’educazione all’orientamento si svolge appunto parallelamente a questi processi, anzi essi ne sono la parte sostanziale. Il bambino che mi chiedeva di esplorare la chioma di un albero altro non mi esprimeva che un desiderio di orientarsi in un modo completo. A lui non bastava sapere che lì c’era un tronco, al fine di scansarlo, ma gli era indispensabile sapere che oltre il tronco c’erano dei rami che si estendevano sopra il suo capo e che avevano quella determinata estensione. Orientandosi nello spazio si creava di questo una figura completa. Se fosse sufficiente all’orientamento un adattamento muscolare, basterebbe far percorrere più volte lo stesso spazio perché egli lo sappia poi ripercorrere senza errori, invece si notano bambini che girano da anni nei loro istituti e che ancora commettono errori di orientamento. Ho sperimentato personalmente i due metodi, quello basato sulla memoria muscolare e quello basato sulla ricostruzione immaginativa dell’ambiente. Se basandoci sulla memoria muscolare occorrevano venti prove prima che un bambino giungesse ad orientarsi in un ambiente ristretto, basandoci sullo altro bastava una, che fosse però preceduta da una esplorazione particolareggiata dell’ambiente e da una descrizione d’insieme. Nel suo ambiente particolare, dove tutto è alla portata della sua mano, il bambino cieco imparerà a muoversi con vera disinvoltura, con sicurezza e con vivacità. Il suo movimento sarà proporzionato all’ambiente e alla necessità e con la proporzione del movimento nascerà l’equilibrio del comportamento e infine anche l’equilibrio tra l’impulso e l’inibizione: la volontà.
Scansando un ostacolo che sa essere la sua seggiola compierà solo quel piccolo passo necessario a portarlo oltre i limiti di questa, e non farà, come spesso succede, un grande giro che lo porta a sbattere in un altro ostacolo imprevisto. Così potrà giungere a girare nel suo ambiente con tanta sicurezza che la maestra gli può affidare il compito di portare dei recipienti colmi, di attraversare con un bicchiere la stanza, di trasportare in mezzo ai suoi compagni la propria seggiolina senza urtarli e senza bisogno di uno spreco di energie inutili. La proporzione dell’oggetto non si esprime solo graficamente, ma anche fisicamente. Un bambino che saprà disegnare un tavolino secondo le proporzioni di esso vorrà dire che lo conosce al punto da saperlo scansare con il movimento giusto.
Non si può prescindere nell’espressione del disegno dall’orientamento in moto, poiché l’espressione, come abbiamo visto, è il risultato d’i una reazione complessa. Pedagogicamente l’orientamento del bambino cieco si può suddividere in due grandi parti: l’orientamento tattiloanemestesico e l’orientamento acustico. Questa distinzione è valida solo per i mezzi che si debbono impiegare nello sviluppo di questa importantissima facoltà. L’orientamento tattiloanemestesico sfrutta le sensazioni derivanti dal tatto e dal senso di pressione localizzate sulle parti del corpo scoperte; mentre quello acustico riguarda le sensazioni sonore che giungono al bambino cieco e che lo guidano nei suoi movimenti. Praticamente poi, i due modi dell’orientamento agiscono simultaneamente, poiché non esiste un momento in cui ci si orienta soltanto diretti dalle sensazioni tattilomotorie come non esiste un momento in cui prevalgono solo sensazioni acustiche. Dovendo scegliere tra i due ordini di sensazioni per stabilire una priorità e quindi un valore sintetico, quelle acustiche che hanno indubbiamente la preferenza e perché il senso dell’udito è per sua natura più sintetico del tatto e perché le sensazioni acustiche sono sparse in ogni suo ambiente, così che è possibile affermare non esistere alcun ambiente che sia completamente atono.
2 – Orientamento statico e orientamento in moto.
La fotografia viva dell’ambiente in cui vive il bambino cieco si accompagna al suo immaginare soltanto se noi avremo fatto sgorgare il desiderio vivo di conoscere e di rappresentarsi costantemente ciò che ha conosciuto.
Come è mai possibile pensare che la facoltà immaginativa operi soltanto nel corso più attivo della stimolazione e riposi invece, in un beato nulla, quando il silenzio e la quiete si posano sui sensi? Chi vede è abituato a pensare tutto sotto forma di immagine. Anche quando se ne sta al buio nella sua camera, tenendo magari gli occhi chiusi. Davanti alla sua mente passano visione ben determinate e, basta che lui voglia, ha sempre la possibilità di richiamarsi l’ambiente in cui si trova, anche se non vi è lo stimolo attivo della sensazione. Cercando qualcosa in una stanza buia chi vede non si comporta da cieco, ma da vedente, poiché a guidarlo restano sempre le immagini visive, presenti in quel momento come immagini rivissute e aventi quindi un certo valore attivo e reale. Così si comportano da vedenti, quei ciechi che hanno perduto la vista nella fanciullezza o nella prima giovinezza; infatti tutto quanto li circonda ha per loro un colore oltre ad una particolare conformazione tattile e il loro orientamento statico ed immaginativo risulta spontaneo e vario come quello di chi continua a vedere. Le prime condizioni per determinare un orientamento statico, sono dunque di ordine psicologico. Bisogna porre il bambino cieco nella necessità di mantenere sempre il contatto con la realtà esterna e questo si può fare togliendolo, con un paziente lavoro giornaliero, dalla naturale inclinazione di prescindere da ciò che è fuori di lui per ripiegarsi in se stesso.
Osserviamo un bambino non ancora educato, seduto al proprio tavolino fermo in un punto qualsiasi della scuola o della casa: il suo visino sembra assorto in pensieri lontani, il suo corpo dondola più o meno sensibilmente con un movimento di oscillazione che nella maggioranza dei casi è da dietro in avanti. Da che deriva questa pessima abitudine di oscillare il corpo e di torcere continuamente le braccia e le mani? L’organismo non può permanere in una continua posizione d’inerzia, ha bisogno di un certo moto che gli garantisca alcune possibilità di sviluppo e quindi spontaneamente tende verso quel moto più naturale, più informe, che prescinda nel senso più assoluto da qualsiasi atto di volontà e da ogni inquadramento nella realtà esterna. Il bambino si rifugia in un mondo fantastico, privo di immagini e di forme, magari rapito da suoni o da combinazioni verbali e il suo corpo dovendo proseguire, nonostante tutto, quel lavoro di adattamento e di sviluppo organico, si mette ad oscillare, cercando quasi di cullare quella «rêverie» continua, non possedendo sufficiente energia per stroncarla. Orientare staticamente il bambino vuoi dire anzitutto porlo nelle condizioni spirituali di desiderare un contatto continuo con l’ambiente che lo circonda. In secondo luogo vuoi dire suscitare un complesso di immagini sempre più ampie e articolate, le quali abbiano un dinamismo il più possibile spontaneo nel loro sorgere e nel loro svilupparsi e sostituirsi Quando il bambino cieco siede nella sala del giardino d’infanzia deve essere in grado di indicare con precisione l’intera configurazione del locale, la disposizione delle finestre, la sistemazione dei mobili, il posto di ogni compagno. Così che egli si accorga di una finestra aperta non soltanto quando sente la variazione di temperatura e di pressione anemestesica, ma dal semplice variare della forma dell’ambiente, da una sensazione diretta sempre vigile su ogni particolare.
Si giunge a questo grado di maturità con un lavoro lento e capillare, ma non è sufficiente la costanza, occorre anche un certo ordine nel processo dello sviluppo. Le immagini che vogliamo suscitare alla mente del bambino cieco, vanno dalla semplice e quasi immediata rappresentazione del proprio corpo, di quanto entra nel raggio di esplorazione della propria mano, a quella assai complessa e varia dell’ambiente preso nel suo insieme. Ho visto bambini sedere al loro tavolino e non accorgersi che esso era rovesciato, cioè con il piano verticale al pavimento; avvertivano un disagio ed un certo cambiamento nelle cose, ma non sapevano di che si trattasse e tanto meno come intervenire direttamente.
Ora, è anzitutto necessario che l’orientamento abbia come punto di partenza il riferimento al proprio corpo. Il riferimento più semplice è quello di grandezza: più alto e più basso del bambino; poi c’è il riferimento di posizione, verticale e orizzontale. Se non vogliamo ricorrere a parole che non sono ancora patrimonio del nostro piccolo cieco, diciamogli, diritto e coricato; le due espressioni avranno un contenuto immaginativo che agisce immediatamente sulla rappresentazione motoria. Su queste due relazioni spaziali, si possono fondare molte serie di esercizi che saranno particolar-mente graditi al bambino, non portandolo oltre l’ambito della sua esplorazione diretta. Fatto il primo passo sulla via dell’orientamento, stabilita una relazione positiva e concreta tra sé e l’ambiente che è al confine del proprio corpo, si può passare ad un successivo lavoro di ampliamento. Il rapporto del proprio tavolo con l’intera stanza: il tavolo è piccolo, la stanza è grande, quindi la stanza contiene il tavolo; non sembri una cosa tanto semplice; poiché per avere un’esatta nozione del piccolo contenuto nel grande è necessario partire dalle cose più elementari. Il bambino cieco sa per abitudine che il tavolo è nella stanza perché vi può entrare essendo più piccolo, ma non lo sa per rappresentazione. Cioè parlando del tavolo nella stanza, non si immagina le due forme in modo comparativo, ma estratto dalla forma un embrionale concetto di grandezza e di quantità, li rapporta su di un piano ancora rozzo di calcolo numerico.
Più grande e più piccolo divengono allora delle quantità simboliche, non delle forme comparate. Da qui comincia appunto il lavoro di astrazione che per sua natura il cieco compie e pian piano si sviluppa portando chi non vede ad un certo grado di forza analitica sia su di un piano concettuale, come su di un piano sentimentale, ma lungo questa strada si smarrisce completamente il senso sintetico della realtà e l’abisso tra chi non vede e la società e il modo di pensare e di sentire della società, si scava sempre più profondamente.
Fermata l’attenzione del bambino su questa prima relazione, che può avere vari aspetti: il tavolino nella stanza, il bambino nella stanza, tanti tavolini, tanti bambini, la maestra, tutti nella stanza; si può passare ad un orientamento di posizione. La stanza è grande, contiene tanti tavolini e tanti bambini, quindi ciascun bambino occuperà un proprio posto e riempirà un pezzettino di stanza; quale sarà questo posto? Vicino alle finestre, alla porta, alla cattedra della maestra, ecco il sorgere spontaneo della posizione, vicino, di fronte, di fianco e così insensibilmente si è introdotto il bambino nell’ambiente, si è fatto di lui una parte viva dell’ambiente, quel che più conta gli si è data coscienza di questa sua relazione. Voglio riportare un dialoghetto che ho ripreso alcuni anni fa nel giardino d’infanzia della scuola Romagnoli.
Il dialogo si svolge tra due bambini di sette anni circa, i quali si orientavano con grande difficoltà per cause che non dipendevano soltanto dalla cecità: il primo bambino diceva: «quanto sei grande?» l’altro rispondeva: «se tu mi alzi un poco io riesco a toccare il soffitto». Poi il primo proseguiva: «proviamo a prenderci per mano e vediamo se riusciamo a toccare io un muro e tu l’altro della stanza». Così fecero; e per loro avventura, stretti come erano per mano, riuscirono a toccare tutti e due un muro, ebbero la sensazione di aver steso con i loro corpi una barriera tra una parete e l’altra, in sostanza toccavano la stessa parete.
In quei piccoli ciechi che abbiamo sentito parlare così, non esisteva alcuna idea della relazione spaziale; e facilmente sono riuscito a convincerli dell’assurdità di quanto andavano dicendo. Mi bastò prestarmi al giuoco, formai la catena con molti bambini, e soltanto quando tutti si furono presi per mano e stesi lungo l’asse maggiore della stanza, i due posti all’estremità della catena poterono toccare i muri opposti. Allora li feci fermare in quella posizione, l’invitai a chiamarsi l’un l’altro e a notare come le loro voci erano distanti. Poi successivamente feci parlare ciascun bambino dando così ad essi la sensazione concreta dell’ampliarsi dello spazio, del distanziarsi progressivo del suono man mano si procedeva da una parete all’altra. Ripetuto questo esercizio fonico più volte, passai ad una fissazione muscolare della immagine. I due bambini si cambiarono più volte di posto, chiamandosi ogni volta che toccavano la parete e dopo ciascuna corsa l’esclamazione loro era sempre la stessa: «come è lontana questa parete!».
In questo lavoro di orientamento bisogna insistere sino a quanto non si ha la convinzione di essere riusciti nell’intento. Sino a quando il bambino non saprà orientarsi staticamente nello spazio, aver l’idea della relazione del suo corpo con l’ambiente —, anzi, più che di idea si dovrebbe parlare di immagine, di vera e propria figura composta — non si potrà procedere oltre nella sua educazione, perché mancherà il terreno sul quale edificare.
Un lavoro, come si vede, che non richiede un particolare materiale di sviluppo poiché il materiale è dato dall’insieme dell’ambiente esterno, dalla configurazione varia della casa in cui vive e si educa il bambino. Per questo è necessario che si possa contare su di un ambiente vario ed interessante, tale da attrarre la curiosità del bambino, senza peraltro suscitargli dinnanzi degli ostacoli insormontabili. La scuola preparatoria non dovrà mai possedere un giardino troppo complicato nel quale i piccoli si possano sperdere. I viali debbono essere simmetrici, facilmente percorribili, senza molti ostacoli, e soprattutto debbono dare la sensazione di sicurezza al bambino. Se noi lo lanciamo per un labirinto di viali e vialetti, rischiamo di creare una confusione nella sua mente, di scoraggiarlo al punto che non vorrà mai più tentare la prova. Inoltre dobbiamo poter contare su un ambiente configurato in modo tale da poter essere descritto. Se noi avremo lasciato al caso la disposizione delle stanze, dei cortili e del giardino, ci sarà difficile schematizzare, e dare una immagine uniforme dell’ambiente. Non dimentichiamoci che abbiamo a che fare con una immaginazione povera e ancora estremamente analitica, cerchiamo di fare in modo che questa povertà non si trasformi in disordine, ma divenga ricchezza. Uno dei postulati della pedagogia moderna consiste appunto nel fare procedere il bambino dal facile al difficile sempre per gradi. La difficoltà che si sottopone deve avere già, per sua natura e per preparazione del bambino, in sé la chiave per essere superata. Così nella conoscenza dell’ambiente in cui vive (torno a ripetere che per conoscere un ambiente non è sufficiente che il non vedente vi si muova con disinvoltura) si deve procedere dal semplice al complesso, sovrapponendo ad una immagine ben stabilita ed acquisita, non un’altra immagine, ma un elemento che modifichi la precedente, così che ci sarà sempre qualcosa di noto pronto ad assorbire l’ignoto e a trasformarlo sotto la spinta di una organizzazione già stabilita. Un’altra volta mi rifaccio al processo naturale che si svolge presso i bambini normali e possiamo assistere al sorgere delle immagini, al configurarsi di esse nella mente del bambino, all’adattarsi dell’attività corporea a queste immagini e vediamo che non si hanno sovrapposizioni, ma semplicemente delle modifiche che allargano sempre più l’immagine semplice per giungere a quella vasta sintesi alla quale concorrono tutti gli elementi del campo visivo.
Ecco il punto di sutura tra l’orientamento statico e quello motorio: la sostituzione di un campo percettivo. L’orientamento statico ha configurato l’ambiente, ha insegnato al bambino ad inquadrare ogni cosa con delle precise relazioni, relazioni a sé, agli altri, tra le cose stesse. Ora, tutte queste relazioni dove si svolgono? Noi sappiamo che vi è nel nostro substrato un fattore comune, lo spazio; ma al bambino come dare l’idea dì questo spazio che si pone come essenziale alla comprensione dell’esterno? L’esperienza mi insegna che questa idea sorge nei bambini normali spontaneamente, appunto per il continuo riferire che fanno delle varie esperienze; ma è vero che presso i bambini, esiste una spazialità determinata visivamente che si pone come sfondo su cui variano le figure.
Ora perché l’orientamento in moto abbia veramente un’efficacia, è necessario che possa contare su questa visione d’insieme che si può definire come il campo percettivo. Abituato il bambino a non soffermarsi sul particolare prima di aver afferrato l’insieme, si può passare al suo addestramento nella sintesi progressiva di elementi successivi e nell’analisi di ciascun elemento. Portando un bambino cieco in un ambente nuovo, si dovrà aver cura di fargli sorgere dapprima l’idea complessiva dell’ambiente, e ciò è possibile se noi gli facciamo notare alcuni aspetti che colpiscono anche la sua sensorialità. L’idea di piccolo, di grande, di alto, di basso, insomma un’idea che definisca prima l’ambiente nel suo insieme e che dia la possibilità in seguito di costituire il riferimento. Ho parlato separatamente dello orientamento in moto e dell’orientamento statico, per poterne analizzare meglio la natura. Non si pensi per questo che sia possibile scindere l’uno dall’altro e anche se alcuni esercizi dovranno avere la precedenza sugli altri, ciò non significa che il bambino non abbia la possibilità di costituirsi un mondo di rappresentazioni simultanee. Educhiamo il bambino a sentire, nel tempo stesso che lo educhiamo ad immaginare; così che la sensazione trae dalla immagine che suscita uno stimolo verso il perfezionamento e l’immagine trae dalla sensazione una ricchezza sempre nuova e sempre più vasta, una varietà che dia all’immagine stessa il tono affettivo.