di Giancarlo Abba.
(da “Lucemagazine“)
Ha ancora senso parlare di Braille in una realtà sempre più pervasa di tecnologia? Perché fare tanta fatica a riconoscere lettere e parole sotto le dita, quando si può ascoltare quello che interessa in cuffia? Che bisogno ha il cieco di rileggere, rivedere, ripensare, riscrivere quanto letto, sempre usando il Braille, quando può semplicemente digitare e riascoltare ciò che ha scritto?
Roobi Roobi, ipovedente vincitrice del premio Braille 2013 dell’European Blind UnionHa ancora senso parlare di Braille in una realtà sempre più pervasa di tecnologia? Perché fare tanta fatica a riconoscere lettere e parole sotto le dita, quando si può ascoltare quello che interessa in cuffia? Che bisogno ha il cieco di rileggere, rivedere, ripensare, riscrivere quanto letto, sempre usando il Braille, quando può semplicemente digitare e riascoltare ciò che ha scritto?
Sgombriamo subito il campo dai dubbi: il Braille per i ragazzi/bambini disabili visivi è necessario, indispensabile, imprescindibile. Imparare questo codice di scrittura e lettura è infatti uno dei fondamenti dell’istruzione di un bambino cieco, come l’alfabeto lo è per il bambino vedente. Se è vero che imparare a leggere e scrivere è uno dei diritti fondamentali della persona, ne consegue che il cieco non può limitarsi alla fruizione della sola cultura orale.
Rispettare i tempi del bambino
L’importanza dell’apprendimento del Braille è sostenuta da ragioni che fanno capo alla strategia pedagogica della formazione del non vedente. Nell’apprendere a leggere e scrivere in Braille, il bambino compie operazioni cognitive che lo rendono consapevole della parola, dello spazio fra le parole, dell’ortografia, della dimensione ritmata tra righe e della dimensione della pagina. Egli compie un insieme di atti motori, di motricità fine e di affinamento senso-percettivo che gli permettono di costruire le competenze necessarie nella letto-scrittura. Scrivere una pagina reale diventa un passaggio indispensabile per “scrivere una pagina virtuale”. Significa avere consapevolezza della quantità delle pagine interiorizzando precisi riferimenti spaziali che si associano a misurazioni di tipo temporale.
L’insegnamento del Braille fornisce elementi per rispettare i tempi del bambino nello sviluppo del suo apprendimento. Inoltre, le raffinate competenze cognitive acquisite durante il suo apprendimento costituiranno il terreno fertile per coltivare ulteriori modalità di accesso all’informazione, come quelle offerte dalle tecnologie informatiche. La conoscenza e l’uso del Braille infatti non sono obsoleti rispetto all’evolversi della tecnologia digitale. Il codice a sei punti nasce da un’intuizione di tipo sensoriale ma ha una struttura geometrica, ovvero matematica, e si presta in maniera favolosa all’abbraccio della generazione informatica. Sarà la persona non vedente che, per sua scelta, farà uso di ciò che meglio soddisfa le proprie esigenze. Dal punto vista dell’istruzione, la scuola ha quindi la responsabilità di garantire l’alfabetizzazione, quindi l’insegnamento del Braille a chi non vede.
Una scuola che sa
Soffermiamoci ora su due aspetti specifici: il primo riguarda i docenti che devono sapere il Braille e saperlo insegnare.
Il secondo riguarda l’alunno non vedente che deve conoscere il Braille e saperlo usare.
Sapere il Braille significa saperlo scrivere, conoscere le lettere, sapere come sono fatte e di quanti punti sono costituite. Tutto ciò è alla base del suo insegnamento e della capacità di leggerlo nei gradi diversi della scuola.
La relazione didattica connessa al fare concreto, all’interagire dell’allievo a scuola, quel semplice far vedere all’insegnante cosa si è prodotto e come lo si è prodotto, è impossibile se il docente non sa interpretare e controllare ciò che gli viene porto. Certo, all’insegnante l’allievo può consegnare la stampa “in nero” prodotta da un dispositivo digitale, ma non è la stessa cosa perché in tale caso si corre il rischio di instaurare con l’allievo una relazione didattica fredda e priva di empatia, escludendo fin da subito che l’unica relazione possibile sia quella instaurata con il solo insgnante di sostegno..
Allo stesso modo in cui un medico cura conoscendo i farmaci, un ingegnere progetta sapendo calcolare forze, pesi e materiali, il professionista dell’istruzione può insegnare all’allievo cieco solo se sa cosa è il Braille, come usarlo e, specialmente nei gradi primari, come insegnarlo. Nei gradi successivi della scolarizzazione l’insegnante deve conoscere le potenzialità che il Braille esprime sia sul piano delle competenze linguistiche da acquisire in modo approfondito sia per quanto concerne il mondo digitale e tecnologico e il suo utilizzo nelle discipline scientifiche. Insomma, la fase che stiamo vivendo, quella dell’integrazione, non può essere peggiorativa rispetto alla scuola speciale, abbandonata negli anni Settanta. Non dimentichiamolo: il non vedente – prima bambino, poi ragazzo poi giovane – ha il diritto di stare a scuola come gli altri. Una didattica, o meglio una tiflodidattica, è imprescindibile perché ogni attività svolta a scuola passa dalla riflessione su cosa si fa e come lo si fa.
La disabilità conoscitiva della scuola non può andare ad aggravare la già grave disabilità visiva dell’allievo, non può cioè ricadere sull’allievo. Perché avremmo una doppia cecità, una vera, quella dell’alunno, una metaforica, ma portatrice di negatività, quella della scuola.
Uno studente che sa
Roobi Roobi – ragazza non vedente di origini pachistane vincitrice del premi Ebu 2013 – ha raccontato con entusiasmo la sua esperienza nell’approccio al Braille, offrendo il senso di un percorso di vita e di impegno personale molto significativo.
Per lo studente non vedente conoscere il Braille denota saper leggere, scrivere e far di conto (come si diceva un tempo). Oggi, occorre aggiungere il saper usare la tecnologia informatica.
Il motto che campeggia all’ingresso del Museo dell’Istituto dei Ciechi di Milano è: «Braille la luce di chi non vede». Sul piano strettamente pedagogico in effetti il Braille sollecita la curiosità, apre ai saperi e al mondo, porta la persona non vedente a essere protagonista di ciò che fa, restando consapevole della propria identità. Un bambino cieco che si avvia all’apprendimento della letto-scrittura in rilievo beneficia di pedagogie e metodologie-didattiche adeguate. Nel saper scrivere e leggere è insita infatti la crescita cognitiva, la maturazione intellettiva dell’individuo. Il codice Braille costruisce l’identità intellettuale dell’individuo non vedente, che in questo modo è fruitore e produttore di cultura.
Da questa concretezza discende poi tutta una serie di considerazioni tiflopedagogiche che investono il tema della sensorialità. La conoscenza della realtà da parte di chi non vede avviene attraverso lo sviluppo degli altri sensi, in particolare quelli del tatto e dell’udito. L’attenzione alla sensorialità comporta lo sviluppo della comprensione del mondo, un vero e proprio affinamento dell’intelligenza operativa.
Uno dei punti di forza dell’integrazione culturale consiste nell’accesso ai percorsi scolastici più alti per chi ne ha le potenzialità. Indispensabile, per essere inseriti a pieno titolo in tali percorsi, è l’essere stati messi in grado di appropriarsi in modo completo del codice Braille, a partire appunto dall’autonoma competenza nella letto-scrittura
Valorizzare la differenza
Perché si parla di ambiente inclusivo che favorisca l’integrazione?
Una delle ragioni sta proprio nella difesa della specificità, una dimensione pedagogica esclusiva (la tiflologia) ma non escludente (aperta all’integrazione).
Se non ci fosse la specificità tiflologica tesa alla valorizzazione della differenza, cioè il rispetto di chi si è e come si è nel contesto di tutti, non avrebbe senso parlare di integrazione.
Il bambino non vedente, invece, deve stare a scuola come gli altri, può stare a scuola come gli altri, vuole stare a scuola come gli altri. E questo è possibile grazie al Braille.